Dicono di NOI

«Vent’anni dopo la Lega è costretta a ripensarsi»

Il primo libro su Bossi: il Senatur abile a giocare su tanti tavoli e a far convivere gli opposti. «I lumbard al bivio, fra voglia di stabilità e ritorno alle origini movimentiste»

PIB.jpgVent’anni dopo, e ora che è il partito senior della Seconda Repubblica, la Lega deve ripensare se stessa. È questa una delle tesi del libro del giornalista e saggista Giuseppe Baiocchi, «Bossi-Storia di uno che (a modo suo) ha fatto la storia», edito da Lindau e nelle librerie in questi giorni. L’autore, ex «Corriere della Sera», conosce anche i dettagli e il dietro le quinte, i pregi e i difetti del Carroccio: è stato, fra l’altro, direttore della «Padania» dal ’99 al 2002, pur senza essere leghista. Ama definirsi «cristiano senza aggettivi» e il suo libro, con una prefazione del sociologo Giuseppe De Rita, farà discutere. Un racconto del nostro tempo attraverso l’avventura dell’eterno fuoricorso in Medicina, scritto col passo dell’analista storico (Baiocchi è stato assistente di Giorgio Rumi alla Statale di Milano), estraneo sia al pregiudizio sfavorevole sia all’enfasi lumbard. Un libro che, oltre allo spessore culturale e all’indagine raffinata, ha un pregio in più: se sul Carroccio in questi anni sono stati scritti più di 60 libri, quello di Baiocchi è il primo su Umberto Bossi, il condottiero padano alla vigilia dei 70 anni. La narrazione umana e politica di un protagonista – comunque lo si voglia valutare – della Seconda Repubblica, fondatore e padre-padrone della Lega. Ne esce un ritratto inedito e problematico di un personaggio carismatico che, nel bene e nel male, ha cambiato e poi condizionato la geografia politica, influendo pure sul linguaggio pubblico e sul costume politico.
Cominciamo da qui, dal fatto che la Lega si deve ripensare.
«Sì, perché il serbatoio culturale che si era riempito dieci anni fa e su cui ha vissuto di rendita in quest’ultimo periodo adesso è in riserva. Il partito-movimento deve ritrovare un alimento culturale nuovo in tempi cambiati, anche perché nel frattempo la Lega è cresciuta come potere territoriale. E pure rispetto al governo nazionale, di cui è parte, deve ritrovare la sua ragion d’essere. Il problema è che questo bisogno di ripensare se stessa è in un quadro del Paese che trasmette una voglia di voltare pagina, accompagnata però da una stanchezza diffusa e dove non compare all’orizzonte nessun profeta del nuovo».
Deve stabilire cosa farà da grande?
«Esatto».
C’è un paradosso: la Lega è il più vecchio partito, eppure si percepisce e trasmette l’idea di essere sempre «nuovo».
«La Lega vive questa situazione con disagio e sofferenza, con la paura di essere impiccata a ciò che è vecchio, mentre è sempre stata la novità: il paradosso è questo ed è accentuato dal fatto che i lumbard non sono ancora arrivati a fine corsa perché il federalismo, che in ogni caso è un percorso lungo, è ancora tutto da attuare».
Lei sostiene l’idea che la Lega sia l’espressione di un nuovo doroteismo, cioè della corrente moderata della vecchia Dc.
«La mia opinione deriva dal modo con il quale gli amministratori locali della Lega si stanno affermando: bene o male, e a parte alcune eccezioni negative, sono stimati dagli elettori perché sono pragmatici e concreti. In questo modo recuperano, magari senza saperlo e senza ammetterlo, l’antica tradizione di buon senso del doroteismo democristiano. E questo spiega perché siano così duri nei confronti dell’Udc di Casini: è il classico caso dei fratelli-coltelli, di una competizione nello stesso bacino sociale e culturale».
Doroteismo in salsa leghista e combinato con l’essere sindacato del territorio.
«Sì, la forza della Lega è appunto quella di essere sindacato del territorio, ossia di aver quotato sul mercato politico i problemi locali. Ma è anche la sua condanna: va bene solo finché la strategia è alta e non sempre è così».
Lei accredita la Lega anche di un neoguelfismo.
«I lumbard si collocano in una situazione neoguelfa nel senso che si oppongono ai ghibellini del laicismo giacobino. In sostanza, sono legati alla tradizione, alla comunità e al policentrismo tipicamente italiano. La mia idea, tuttavia, è che l’Italia forse non sarà mai una nazione vera e propria, ma certo è una civiltà. E quindi sovrapporre una civiltà padana, autonoma e separata, non regge: questa è una sfida che il partito di Bossi ha davanti a sé».
Scricchiola anche il teorema della Lega di lotta e di governo.
«Roma alla fine digerisce tutto e ormai anche i leghisti sono considerati omologati, una parte del sistema».
Dunque, anche loro partecipi di «Roma ladrona»?
«Non lo so. Hanno sempre un bisogno di differenziarsi: si sono omologati, ma non sono stati digeriti. Credo comunque che, senza andare a talune provocazioni, nell’animo della Lega resti un’istanza di diversità».
Ritiene perciò difficile stabilire un confine fra la posizione di lotta e di governo?
«Guardi, Bossi ha sia il popolo sia il rapporto con la sua comunità. De Rita, che è una persona molto intelligente, nella prefazione al mio libro spiega che il Senatur ha trasmesso ai militanti la sensazione di far parte di un popolo. Credo anch’io che finché Bossi regge, la Lega riesca ad essere al contempo partito di lotta e di governo, perché questo doppio binario sta dentro la sintesi di un movimento di popolo».
Lei, citando Machiavelli, lascia intuire che Bossi, il giorno in cui vede la mala parata, ritornerà al movimentismo delle origini.
«È già successo: in diverse circostanze il leader ha sacrificato un po’ di dirigenti e ha usato la base per sparare contro il quartier generale: alla maniera di Mao. Bossi è sospettoso e la sua diffidenza è leggendaria. Ritrarsi verso le origini? Di tanto in tanto questa tentazione c’è e la base in questo lo seguirebbe. Ritorno alle origini vuol dire anche spregiudicato movimentismo, del resto il capo ha sempre giocato su tanti tavoli».
Questa tentazione, tuttavia, andrebbe a collidere con lo status quo della Lega che governa il territorio.
«Qui si apre un conflitto fra il bisogno di stabilità, richiesto dal potere diffuso degli amministratori sul territorio, e la dimensione esclusivamente politica che è movimentista. Un conflitto aperto e da gestire: Bossi, comunque, è molto bravo a far convivere gli opposti».
Nel libro c’è un cenno all’ipotesi che il declino di Bossi si intravvede dentro il suo mondo.
«Il partito è diviso e mi sembra che le congiure ci siano, più per ragioni di potere che per strategia. Mi riferisco in particolare alla bizzarra ed effimera nomina di Aldo Brancher, lo storico ufficiale di collegamento con Berlusconi, a ministro per l’attuazione del federalismo: nomina e funzione esauritesi in un paio di settimane nel luglio scorso. Però spia evidente della velleità di trasformare il leader in un’icona da esibire e da santificare, mentre la direzione reale del movimento e delle strategie politiche può passare in altre mani».
A proposito di congiure, lei, nel negare che Bossi sia un capopolo alla Masaniello, lo paragona al boemo Albrecht von Wallenstein.
«Sì, siamo sempre nel ‘600, ma nell’Europa della Guerra dei Trent’anni. Wallenstein è l’ultimo dei grandi condottieri: esce dal nulla, conquista un territorio e un principato grazie al suo fiuto politico spregiudicato e alla sua straordinaria capacità di approntare eserciti e di guidarli in battaglia».
Dunque, per concludere: Bossi non è un agitatore effimero, un illusionista plebeo e neppure uno scherzo del destino. Lei che lo conosce bene come lo definirebbe?
«Una premessa: lo malattia lo ha un po’ cambiato. Più comprensivo, talvolta meno spigoloso, più aperto a cogliere e a considerare il peso della dimensione umana, la forza degli affetti, l’indulgenza necessaria per meglio convivere. In certe cose è simpaticissimo, in altre urticante. Come già diceva Montanelli, ha un carattere forte e, come tale, qualche volta si rivela un brutto carattere».

Dicono di NOIultima modifica: 2011-02-26T14:20:00+01:00da leganord.b
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